Autoproduzione: scelta di libertà o esclusione dalla normalità?

Inserito il 28 Gennaio 2016

Autoproduzione: scelta di libertà o esclusione dalla normalità?

di Luigi Furno

 

 

 

Oggi la parola crisi è diventata un termine che ha la capacità di annichilire ogni discorso, ogni moto dell’intelletto ne viene completamente assoggettato. Con la cantilena: “è colpa della crisi”; si giustifica ogni pantano in cui inabissiamo le nostre incapacità di trovare risposte fattive alla realtà che ci sovrasta. Con la “crisi”, abbiamo trovato, in apparenza, un concetto che incarni a pieno l’idea di una eziologia totalizzante, cioè la causa delle cause (“causa prima” si direbbe nella filosofia scolastica) con cui spiegare ogni cosa.

Non è un caso, infatti, che i problemi che sta vivendo il comparto dell’oggetto industriale, e nel suo aspetto più “estetizzante” di design industriale, siano fatti risalire alla “crisi” che viene, poi, coniugata in tutti i suoi modi: economica (domanda-offerta), culturale, sociale, contingente, aspirativa ecc.. 

 

Il design, essendo inequivocabilmente un valore aggiunto alla semplice funzione di un’oggetto (per buona pace dei funzionalisti puri e duri), ha sempre stuzzicato, e in molti casi provocando, la domanda, intesa in termini microeconomici, di tali oggetti costruendo intorno ad essi tutta una retorica, vero o fittizia, di scontro confronto da offerta e domanda. Giocando con il paradosso, potremmo dire che il design più evoluto, quello cioè che ha velleità più spiccatamente culturali ed artistiche, generi, in nuce, la propria “crisi” in quanto, essendo esperienza artistica, vive sempre con sottile disaggio l’ordine costituito e con l’ordine della forma nella fattispecie.

 

La crisi del design, lo si ripete ormai a menadito, è anche di ordine definitorio. Problema non da poco perché, come tutte le ambiguità semiologiche, genera una bella quantità di errate interpretazioni che genera, a sua volta, una serie di cattive risposte correttive.  

Per quanto sia vaga e di difficile traduzione, la parola design rimanda in senso lato ad un modo ‘moderno’ di affrontare il problema della produzione di oggetti. Sebbene non in maniera esclusiva, ciò spesso si avvicina alla produzione di tipo industriale, per sua natura basata su processi seriali e, possibilmente, grandi numeri.

Ma questa definizione è ormai completamente priva di senso, per due ordini di ragioni. Il primo è che, per quanto si possano ribellare i teorici e gli accademici, le parole subiscono un uso quotidiano che spesso le allontano dai loro originari contesti di senso. Per il senso comune, ormai, la parola design non viene intesa come “progettazione funzionale e disegno” ma, nell’immaginario collettivo, è sinonimo superficialmente di decorativismo e, nel suo aspetto più avariato, di sfiziosità.

 

La seconda ragione concerne la concezione che abbiamo oggi di produzione industriale. Si continua ad immaginare, e a vedere, tra la dicotomia Industriale vs. artigianale uno scontro di due modi produttivi. Alla base di questo scontro, ci sarebbe la capacità di rende seriale un prodotto. Seguendo questa idea, quello che differenzierebbe un processo industriale da uno artigianale, sarebbe la standardizzazione del prodotto e la riduzione dei tempi esecutivi. Questa visione, figlia di una analitica fordista, non tiene presente, però, dell’evoluzione della tecnica. L’informatica combinata alla macchina industriale (es. laser, controllo numerico, 3D) ha garantito, anche a piccoli produttori, un tale livello di automatizzazione, anche su singoli pezzi, che stravolge completamente la vecchia idea di serializzazione organizzata a livello industriale.

Il discorso è sempre stato, e rimane, quello dell’abbattimento dei costi e dello sfruttamento delle economie di scala ma, oggi, tale abbattimento, e chiunque è in credo di notarlo, si è spostato dalla tecnica produttiva all’abbassamento dei costi della manodopera (delocalizzazione nei paesi con costi del lavoro molto bassi).

Il problema si complica molto di più se guardiamo all’intero processo di realizzazione di un oggetto come ad un sistema complesso che va dalla materia prima, alla sua progettazione, per passare alla lavorazione e per finire al circuito di promozione, distribuzione e vendita.

Quest’ultima fase - promozione, distribuzione e vendita - da sempre l’ostacolo più insormontabile per i giovani designer, ha portato alla riscoperta di un vecchio, sembrava demodé, modo di realizzare oggetti di design: l’autoproduzione.

 

In un recente convegno organizzato dalla Federarchitetti di Benevento sul tema dell’autoproduzione, il designer Angelo Soldani ha affermato: “da diversi anni dedico il mio impegno professionale alla riqualificazione del ruolo dell’artigiano nello scenario produttivo della mia terra, la Campania. Ho potuto perseguire questo ambizioso obiettivo grazie al mio percorso didattico e lavorativo che mi ha consentito di guardare alla tradizione con sguardo innovativo applicando la tecnologia a processi artigianali senza deturparli.  Nel 2013 ho dato vita a Design Artigianale, un manifesto che voleva realizzare il censimento nazionale dei designer autoproduttori con partita iva”.

Ogni crisi ci pone di fronte a una alternativa. Obbliga al movimento. All’innovazione. Alla contromossa. Non consente l’inerzia, l’attesa, la routine. Perché anche se le contraddizioni del reale sono ancora – e ora più che mai – prodotte globalmente a livello sociale, il dovere e la necessità di affrontarli sono stati definitivamente individualizzati. Ed è per questo motivo che creatività e crisi hanno iniziato ad apparire in coppia in sempre più occasioni, ed è per questa ragione che certo mondo di ricerca nel design ci sta provando con l’autarchia, l’austerità, l’autoproduzione.

 

In un Paese che vanta una ricchissima tradizione di botteghe artigiane sono infinite le ascendenze cui far risalire il ritrovato interesse contemporaneo per un design autoprodotto.

 

Al contrario della produzione industriale classica, la categoria della autoproduzione sembra richiamare ai modi di una produzione artigianale, basata non sulla velocità dell’industria quanto sulla durata del fare, un approccio di piccola serie o di pezzi unici. “Il rapporto qualità-quantità è centrale in tutta la produzione industriale: la qualità la si determina quando la forma di un prodotto non “sembra” ma, semplicemente, “è”. Questa affermazione, tutt’altro che paradossale, non è però sentita dalla maggior parte della gente. E questo rende particolarmente problematica la realizzazione di progetti di una qualche dignità”.

Così si esprimeva e giustificava, in una prefazione datata giugno 2002, Enzo Mari in una ristampa del suo classico “Proposta per un’autoprogettazione”.

Si ritrovano illustri esempi, che possiamo considerare come progenitori, di autoproduzione: dall’esperienza inaugurale della Bauhaus, a Gaetano Pesce o Hella Jongerius, o anche molte delle proposte elaborate da un eccentrico personaggio quale Carlo Mollino, realizzate sotto la sua costante supervisione dalla falegnameria artigiana Apelli & Varesio, o certe cose di Michele De Lucchi e, chiaramente, il suo teorico, fin troppo romantico, Enzo Mari.

 

In un volume, curato da Beppe Finessi, dal titolo “Autarchia, austerità, autoproduzione”, si spiega la genesi dell’autosufficienza produttiva analizzandola in tre periodi storici cruciali: gli anni Trenta (Dall’autarchia all’autonomia), gli anni Settanta (Dall’austerità alla partecipazione) e gli anni Zero (Dall’autoproduzione all’autosufficienza. All’origini del design italiano, a seguito delle sanzioni economiche imposte dalle Nazioni Unite nel 1935, il design italiano impara a fare di necessità virtù e riscopre materiali e tecniche della nostra tradizione o inventa addirittura nuovi fantasiosi materiali. Un secondo momento importante coincide, invece, con la crisi petrolifera degli anni ’70, in cui i nostri grandi progettisti hanno realizzato opere esemplari, affrontando con coraggio la scarsità di risorse attraverso la sperimentazione di nuovi linguaggi. Si arriva, infine, ai giorni nostri, in un contesto di crisi del modello produttivo acriticamente perseguito nei decenni precedenti, spingendo a riscoprire non solo l’autoproduzione, ma anche, per esempio, le specificità locali e quell’unicum a livello internazionale che sono i distretti industriali italiani.

 

Il significato di autoproduzione, come abbiamo visto, si è però a mano a mano allargato e approfondito ed è diventato il punto centrale per capire le dinamiche e le trasformazione produttiva-distributiva e del consumo del futuro.

Ma chi sono oggi gli autoproduttori? Sono innovatori indipendenti che progettano, realizzano, fabbricano, vendono e promuovono in modo autonomo e indipendente i propri prodotti-servizi. Si potrebbero definire riconfiguratori di esperienze, attività-processi e filiere (non solo produttive ma soprattutto, è qui che si gioca la partita, ideative e distributive) che vedono, nella propria attività di autoproduzione, un modo di sopravvivenza, in una vecchia logica di mondo che li ha relegati ai margini, per realizzare artefatti personali, più spesso personalizzati o personalizzabili, che rifuggono il marketing spicciolo e la rincorsa al ribasso del gusto estetico. Operano guidati da una fortissima attitudine alla sperimentazione. Se lo possono permettere perché rischiano tutto, ma rischiano da soli, non avendo grossi vincoli di responsabilità di capitali investiti.

Questa caratteristica li rende, per molti aspetti, confrontabili con la figura dell’artigiano o del maker senza però condizioni limitanti. Non hanno nessun vincolo dell’esecuzione manuale nei processi di produzione o la necessità di essere autori unici del processo progettuale ma sfruttano un sistema di rete di conoscenze. Usano la realtà italiana dei distretti e delle piccole realtà industriali, creano una realtà alternativa di produzione realizzando una rete produttiva tra le varie realtà esistenti sul territorio. Garantiscono, in questo modo, al prodotto la possibilità di avere un riscontro economico grazie, sia alle forme organizzate delle comunità sociali tradizionali, sia in quelle mediate dal web, con le nuove forme-piattaforme della distribuzione on line e on site.

 

Sfruttando al massimo i sistemi di rete, e con internet la rete diventa praticamente globale, realizzano concretamente la concettualizzazione di “villaggio globale” di MacLuhan. By-passando i sistemi accentratori di produzione e distribuzione classici, soprattutto attraverso l’e-commerce che gli garantisce di non doversi mostrare fisicamente in ogni dove, non ha più nessun valore vivere negli centri economici - Milano in questa logica perde la sua essenza - perché tutta la provincia diventa epicentro del mondo. 

Gli autoproduttori sono, quindi, dei designer-impresa, ovvero imprenditori che usano il progetto, le competenze tecnico-produttive e distributive (loro o di altri) per elaborare soluzioni di prodotto/servizio da immettere nel mercato, comprese le tecnologie e i dispositivi stessi necessari alla produzione se non già disponibili sul mercato.

Queste designer sono figure di un contemporaneo che non ha nostalgia, né malumori, con un mondo che lo ha estromesso - per molti di loro la scelta dell’autoproduzione non è neanche una scelta di comodo - e che mescola e trasforma, in maniera aperta, processi ideativi e realizzativi low-tech e high-tech.

L’apertura e connettività dei processi di autoproduzione rappresenta, indubbiamente, una novità. La vecchia logica produttiva non ha (quasi) mai ragionato in questi termini relativamente al cambiamento degli artefatti. Il passaggio evolutivo da “prodotti per tutti” a “prodotti di tutti” si alimenta da una parallela transizione in atto nel mercato del progetto: da un numero ristretto di creativi che progetta per una massa di persone a un numero (sempre più) allargato di creativi che può progettare per un unico individuo.

 

Si è creduto per molto tempo, in Italia e non solo, che sotto la voce designer potessero stare solo quei progettisti che lavoravano e pubblicavano con aziende top del settore, mentre gli altri progettisti di prodotti industriali (designer anch’essi quantomeno per definizione) non potessero fregiarsi di quel titolo.

È in atto, invece, una rottura di questo “cartello” che da decenni lega alcune aziende ad alcune riviste di design su cui le medesime aziende fanno inserzioni pubblicitarie.

Non solo la relazione progressivamente “viziata” tra aziende e riviste sta uscendone completamente ridimensionata, ma la Rete e la capacità/possibilità dei designer-produttori di rendersi visibili in maniera indipendente, sta mettendo in luce un altro mercato, un’altra clientela, altri attori che scoprono in questa dimensione una relazione differente ed opportunità vicine all’emergere di desideri differenti.

La possibilità del designer di portare in Rete i suoi prodotti e di lavorare su di una dimensione virale ed orizzontale della comunicazione del proprio lavoro sta facendo saltare molti dei confini tradizionali.

 

L’autoproduttore è l’iniziatore di una nuova forma di produzione che riesce ad affermarsi in un mondo dove l’economia di scala è un dogma scolorito e in cui comincia ad affacciarsi la consapevolezza di una rinnovata relazione con le merci che nasce da una cultura del consumo evoluta e ‘intelligente’, per qualità e sostenibilità, quindi on demand, custom made, spesso e soprattutto orientata a una produzione-distribuzione on site.

 

 

 

 

 

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